Lo spietato mafioso Caino, interpretato dall’attore Ninni Bruschetta, racconta al microfono di fronte ad un giudice invisibile la sua ascesa fulminea. Una scalata iniziata con l’efferato omicidio del suo quasi fratello Rosario (da qui il nome Caino) e conclusa, dopo molti anni e altrettante bestiali uccisioni, con la sua stessa eliminazione da parte di due giovani “troppo sorridenti” sicari. «Come se tutto avesse obbedito ad un destino già scritto».
“Il mio nome è Caino” con la regia di Laura Giacobbe è andato in scena giovedì 3 febbraio al Théâtre des Variétés,a cura dell’Associazione Dante Monaco, in presenza di numerose personalità fra cui l’Ambasciatore d’Italia nel Principato Giulio Alaimo, l’Ambasciatore di Francia Laurent Stefanini, il Sindaco di Beausoleil, Gérard Spinelli. Lo spettacolo, tratto dall’omonimo romanzo di Claudio Fava il cui padre, il giornalista Giuseppe Fava fu assassinato dalla mafia nel 1984, è stato accolto dal pubblico di Monaco con un lunghissimo applauso destinato al drammatico monologo finale in cui Bruschetta/Caino – la cui vicenda si interseca perfettamente con le note della pianista, compositrice e direttrice d’orchestra Cettina Donato – sembra spiegare prima di tutto a se stesso, la vanità omicida, la precisione nello svolgere personalmente il proprio compito, la ferocia di un uomo che “amministra la morte”. Il killer spietato infatti afferma «…non sono un assassino, ho solo assolto un compito che mi è stato assegnato».
« Il 2022 segna un anniversario importante – ha sottolineato nel discorso introduttivo Grazia Soffici, Presidente della Dante Monaco – il trentennale delle stragi mafiose più terribili avvenute in Italia, quella di Capaci e di via D’Amelio e la perdita dei nostri magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Attentati che però hanno avuto l’effetto di risvegliare le coscienze impedendo che andasse a buon fine l’attacco che si voleva creare per ottenere un accordo fra Stato e mafia ». Ma come si diventa mafiosi? « Me lo ha insegnato mio padre. – risponde Caino/Bruschetta nel suo dialogo immaginario – Signor giudice uno non diventa mai mafioso. Si nasce mafiosi. Perché? Per regole di famiglia, perché è quello che gli altri si aspettano da te, per pigrizia. Impari i gesti degli adulti, a farli tuoi, impari a mettere brevità nelle parole, impari la virtù della pazienza che non è mai ‘minchioneria’ ma è la tua misura del tempo. Poi se sei fortunato i vecchi ti insegnano anche a comandare. Si, io sono stato fortunato, perché mio padre era un capo mafia. Anche il padre di mio padre era un capomafia. E da loro ho imparato tutto. Quasi tutto». Un determinato e freddo esercizio del male che non fa di lui un semplice esecutore, ma un killer che stabilisce il momento in cui togliere la vita alle vittime designate, decidendo talvolta anche di regalare loro un’ora di vita in più: « Mi piaceva – dice rivolto al pubblico – mi sentivo un padreterno».
Fino a che l’ineluttabile destino si compie anche per lui. E l’amico, il quasi fratello Rosario, gli torna ancora una volta alla mente, in una Palermo di cui sembra scoprire la suggestiva bellezza, negli ultimi fotogrammi di vita.
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